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Psicologia del lavoro: cos’è e perché sta diventando indispensabile

Abbiamo intervistato la dottoressa Agnese Scappini, psicologa a indirizzo Lavoro e Contesti, esperta in comunicazione, membro del gruppo di psicologia del Lavoro dell’Ordine degli Psicologi dell’Umbria. Attualmente svolge la libera professione di psicologa clinica, psicologa del lavoro e dello sport.

La dottoressa Scappini inizierà una collaborazione con Medicina & Cure tenendo dal prossimo numero, una rubrica sul tema della psicologia del lavoro e, proprio per presentare questo argomento, abbiamo fatto con lei un’interessante chiacchierata introduttiva.

Partiamo dall’inizio, che cos’è la psicologia del lavoro?

La psicologia del lavoro è l’applicazione di metodi sia terapeutici sia motivanti e migliorativi dei contesti e dell’individuo. In ambito professionale, ci si trova a lavorare in organizzazioni più o meno grandi e si va a intervenire sempre sul gruppo. Il nostro ruolo va anche a rilevare problematiche o criticità individuali, se l’azienda dà la sua disponibilità; tuttavia l’approccio principale è al gruppo e alle sue dinamiche. Ciò è molto in linea anche con la psicologia dello sport, perché si valuta e si migliora la performance del gruppo, considerato come un’entità unica trattata nel suo insieme. Lo psicologo è quello che diagnostica il livello di benessere organizzativo di una realtà aziendale e va a intervenire laddove questo benessere abbia delle criticità, sia in declino o, ancora, in casi di difficoltà. A volte le aziende lo chiamano semplicemente per migliorare la performance, anche quando non ci sono problematiche manifeste.

In quali tipi di aziende è consigliata la presenza di uno psicologo del lavoro?

Oggi questa figura fortunatamente comincia a essere presente un po’ ovunque perché permette di avere una visione complessiva anche in un’organizzazione vasta e quindi disperdibile. Nelle piccole aziende è altrettanto importante perché esistono legami molto più stretti, spesso anche familiari, e quando qualcosa va male è difficilissimo intervenire. Quindi lo psicologo può essere un buon mediatore anche solo nei passaggi generazionali, in quei passaggi di consegne che sono sempre molto delicati. Una sorta di figura cuscinetto.

Secondo lei è compresa l’importanza di questa figura tra gli imprenditori?

Sì, le aziende sono sempre più attente a questo tema. Io ad esempio adesso collaboro con Confapi Vicenza, una realtà dove ci sono medie e grandi aziende molto sensibili al lato del benessere. Ormai si percepisce che non c’è più bisogno di competenze specifiche, ma di un clima di benessere che permetta alle persone di acquisire competenze. Ciò che oggi serve a un’azienda, sono infatti le persone che possano ricoprire diversi ruoli, che siano in grado di cambiare: perché il lavoro è fluido, si modifica molto più velocemente e quindi una persona deve essere in grado di adattarsi. Meglio avere persone adattabili e propense ad acquisire nuove competenze, piuttosto che bravissime in una competenza unica che però li rende inutilizzabili quando quell’unica competenza non serve più.

Quindi un supporto nella gestione del personale, nella gestione della leadership, nel problem solving, ma anche prevenzione di problematiche particolari: penso ad esempio al mobbing.

Assolutamente sì, il mobbing tra l’altro è uno di quei fenomeni che hanno sempre un’escalation, andando gradatamente vanno ad amplificarsi. Non inizia, ma si tratta di qualcosa di latente che piano piano si intensifica. Se si ha una buona attenzione, se il superiore, il manager, riesce a rilevare determinati comportamenti in maniera precoce, allora si può intervenire in tempo piuttosto che quando ormai il fenomeno è esasperato.

C’è qualche consiglio generale che può darci per il raggiungimento del benessere in azienda?

Si parte dal team building. La cosa su cui punto di più è spiegare che la relazione vince. Noi veniamo da un paio di generazioni di individualismo un po’ sfrenato, da uno stile americanizzato, che è quello del riuscire sopra tutti. Oggi invece bisogna rivalutare la capacità, che noi italiani abbiamo molto spiccata, di fare gruppo e di fare relazione perché in situazioni del genere si evolve e si va oltre i limiti di un individuo. Da soli si può arrivare fino a un certo punto. Occorre partire dal principio che l’altro non è qualcuno che minaccia il mio ruolo, ma che mi supporta. In altre parole, bisogna conoscersi e darsi obiettivi comuni per costruire un sistema di valori all’interno dell’azienda. Naturalmente le singole peculiarità sono un arricchimento, però l’importante è che la direzione sia la stessa.

Questo concetto lo declino anche nell’ambito sportivo, come psicologa dello sport – sono anche mental coach della Bartoccini – e in ambito scolastico, dove sto seguendo un progetto molto interessante in cui vado a spiegare l’importanza del team building, dell’inclusione e del fare gruppo. Tutti temi molto importanti da approfondire e da divulgare, specie in periodo pandemico.

A proposito di pandemia, che impatto ha avuto su queste dinamiche di cui ci ha parlato?

Io dico sempre che la pandemia ha tolto tanti supporti compensativi. Noi viviamo in compensazione: la corsa al mattino o l’aperitivo con gli amici mi serve per reggere tutto lo stress della giornata. Ognuno ha i suoi metodi di compensazione. Questi sono stati tolti, però, per diverso tempo, acuendo alcune criticità delle persone, soprattutto nell’ambito del lavoro o della scuola. Il vivere insieme richiede un impegno fisico e cognitivo che è diventato più difficoltoso. Nel gruppo si esercita spesso lo scarico delle tensioni: immaginiamo il bullismo, la violenza, lo stesso mobbing, tutti fenomeni che spesso hanno bisogno del supporto del gruppo, non sono mai individuali. Tali aspetti, nel periodo che stiamo vivendo, hanno purtroppo trovato terreno particolarmente fertile. D’altra parte però la pandemia ci ha fatto diventare più consapevoli, portandoci a conoscere meglio noi stessi.

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